“Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo” (Primo Levi)
Quando pensiamo allo sterminio degli ebrei, degli omosessuali, dei prigionieri politici o di tutte quelle persone morte durante di anni delle leggi razziali, ci catapultiamo direttamente nella Germania nazista o in qualche campo di sterminio in Polonia e da italiani cerchiamo sempre di addossare le colpe all’ometto spregevole con il baffetto. Ebbene, dobbiamo ammettere che anche noi abbiamo le nostre colpe e sicuramente qualcosa da farci perdonare! Sin dalla V elementare le maestre ci hanno accennato alla seconda guerra mondiale e alle varie parti in causa dipingendo come cattivi assoluti i tedeschi e come buoni i russi e gli americani. E l’Italia? Beh i pareri sono contrastanti: chi la vede come il cagnolino della Germania, chi come un paese totalmente allo sbando che si è alleato dalla parte sbagliata e chi punta le punta il dito contro.
Beh proprio dei Santi non lo siamo stati e questo l’ho capito in primis studiando e leggendo molte testimonianze dell’epoca e visitando un museo a Milano di cui ignoravo totalmente l’esistenza. Mi riferisco al “Binario 21” che si trova proprio nella pancia della stazione centrale. Un luogo di memoria, un luogo di ricordo, un luogo silenzioso ma al tempo stesso molto rumoroso a causa del continuo ed incessante stridio dei treni che partono proprio sopra la testa dei visitatori. Un luogo scarno e buio che mette i brividi e fa venire la pelle d’oca con l’incessante desiderio di uscire e rivedere un minimo di luce. La scritta gigante “INDIFFERENZA” che si staglia a caratteri cubitali all’entrata, accompagna il visitatore nel cammino verso un pezzo di storia che fa male, che si muove come una spina conficcata nel cuore, una pesante eredità che siamo costretti a portarci dietro e a farne i conti ogni volta. Indifferenza di chi sapeva e non ha fatto nulla all’epoca dei fatti, indifferenza di chi ha permesso che questo genocidio potesse essere messo in atto, indifferenza verso la vita umana e indifferenza di chi oggi, si gira dall’altra parte e finge di non vedere quello che accade a due passi da casa propria: stragi di innocenti in Siria, chiusure di frontiere, stragi di innocenti nei remoti villaggi africani e chi più ne ha più ne metta (non voglio entrare nel merito perché non ne so molto di politica internazionale, ma mi basta leggere qualche articolo per capire che siamo arrivati al limite del possibile e della decenza).
Binario 21, un percorso angoscioso e molto riflessivo che ripercorre la storia di chi ha dovuto lasciare la propria terra, la propria famiglia per andare incontro ad un destino nefasto dal sapore di morte e di camere a gas. Durante il tragitto mi mancavano le parole e la pelle d’oca mi ha fatto compagnia per tutta la durata della visita. Ogni volta non riesco a spiegarmi il motivo, non riesco a capire come sia stata possibile una cosa del genere e non riesco a trovare una risposta, ma del resto la storia sembra che stia ripetendo anche se in forme leggermente diverse. Il momento più forte è stato il passaggio nel vagone che ha trasportato senza pietà migliaia di persone verso la loro condanna a morte. Mi sono sentita male, le gambe tremanti e una sensazione di totale mancanza d’aria e smarrimento anche se in quel vagone ci sono stata per due minuti. Non vedevo l’ora di uscire, di vedere una luce e di scrollarmi da dosso quella sensazione di claustrofobia che mi ha preso in ogni singola parte del corpo. Ecco, ora immaginate 60/70 persone con temperature altissime o bassissime, attaccati l’uno all’altro per una settimana, senza cibo, senza aria, senza servizi igienici o posti a sedere. Beh, no, non possiamo minimamente immaginarlo eppure continuiamo ad agire come bestie.
A quanto pare la storia non ci ha insegnato nulla e ci nascondiamo dietro i paroloni e le manifestazioni pubbliche pur di non ammettere che gli errori, li stiamo ripetendo ancora oggi. Il Binario 21 è ricco di testimonianze e se provi a stare in silenzio ti accorgi che tutto lì sotto parla: le mura, il suolo, le pietre della ferrovia, i vagoni, le targhette commemorative, il muro con i nomi dei deportati e le decine di documenti, lettere, fotografie presenti nel museo. Parlano, raccontano, gridano una storia che sembra non appartenere alla nostra generazione, una storia che fa male ricordare, una storia che ha il sapore di morte e che è vicina a noi più di quanto pensiamo.

Pia